"Mare di Cinisello" - I Testi dal libretto

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ALBA E PAMELA                              
di Carmen Todino

È una mattina soleggiata e nella saletta d'aspetto dello studio del Dr. Alberti, primario di chirurgia plastica al Bassini, due signore bionde attendono di essere ricevute.
Una sfoglia distrattamente una rivista, è il prototipo della bellezza d'oltre oceano, tutto in lei è eccessivo: troppo bionda, troppo truccata, troppo formosa. Una che non passa inosservata. L'altra signora annoiata e impaziente misura a lunghi passi la piccola sala, ha lo sguardo magnetico e le labbra truccatissime spiccano sul volto non più giovane, ricordo di una bellezza ruspante e nostrana.
“Anche lei qui per un controllo alla pressione?” chiede ad un tratto la donna in piedi, un po’ per ammazzare il tempo ed un po’ per stuzzicare l’altra.
La donna seduta lancia un'occhiata torva alla sua interlocutrice.
“Oh no! La mia pressione è perfetta: 60 la minima e 80 di massima...” risponde con forte accento americano, scostando una ciocca di capelli platinati dalla fronte.
“Non quella pressione... mi riferisco agli air-bags”. Barbie ha mangiato la foglia! Pensa intanto la donna in piedi muovendo nuovamente qualche passo e rincarando la dose: adora far arrabbiare le persone.
“I don’t understand...” ribatte la signora seduta, passando all'inglese per prendere le distanze.
“Gli air-bags!! Questi!!” ribatte la donna in piedi indicando il prosperoso seno dell’altra.
Sul volto levigato dell'americana compare un'espressione esterrefatta, ma dopo una breve esitazione si riprende e risponde nel suo  italiano “slengato” pieno di vocali arrotondate: “Oh no!! no... sto solo aspettando un amica... lavora qui...”
“Complimenti!”, riprende la donna in piedi con falsa cortesia, “la sua è una quinta naturale, allora,  e alla sua età è veramente perfetta…” incalza con un inconfondibile accento romano.
La donna seduta balza in piedi, per un attimo sembra voler tirare un pugno dritto in faccia alla rompiscatole. Ma poi cambia tattica, la bagnina più famosa della California passa al contrattacco: “Già, la natura è stata molto generosa con me” ammette ammiccando“certo non si può dire la stessa cosa di lei...” e rilancia: “Qualche ritocco ci vorrebbe proprio...”.
“Ritocco??!” sbotta la donna che fino a poco prima aveva provocato l'americana “e cosa vorresti ritoccà?” oramai è passata direttamente al romanesco, le mani sui fianchi, pronta alla battaglia.
“Si fa prima a dire quello che non c’è da rifare…” risponde pacata l’americana girandole ostentatamente le spalle e riprendendo la rivista in mano.
“Ma senti sta bagnina de gomma!! Ma se c’hai più tagliandi tu de nà cinquecento del ’56!!”
La romana è fuori controllo, le spalle dell’altra sono un affronto che non sopporta e le si avventa addosso prendendola per i capelli, costringendola a girarsi. L’americana perde l’equilibrio e, affondando le unghie nel braccio dell’altra, la trascina a terra, urlando imbestialita. Tra schiaffoni, unghiate e parolacce entra il dr. Alberti: “Ma che diamine?”
Rapido, il dottore blocca il braccio di Alba Parietti che sta per sferrare un pugno ai danni di Pamela Anderson. Pamela - approfittando dell’intervento del medico - affonda un’ultima unghiata sul volto della Parietti che inizia a sanguinare dal labbro inferiore. “Stronza!” urla la Parietti cercando di liberarsi dalla stretta del medico: “Basta! Basta!” alza la voce il Dr. Alberti mettendosi tra le due. “Fuck!” ribatte tra i denti la Anderson rialzandosi. “Infermiera!! Venga subito!!” urla Alberti sconcertato.
“Ma cosa succede qui?!” dice l’infermiera sgranando gli occhi. “Mio Dio! Non ci posso credere Pamela Anderson ed Alba Parietti: che colpo di scena... e in che stato!”.
“Rosa, la prego faccia qualcosa per le signore...” Rosa ci pensa un attimo, poi torna con notes e penna: “Cosa c’è meglio di una bella dedica con autografo per fare tornare il buon umore a delle star?”
Porge il blocco ad Alba che la guarda di traverso. Ma davanti a una ammiratrice si ricompone, scarabocchia una dedica e svolazza il suo nome con mano nervosa. Il blocco passa nelle mani di Pamela che ha il volto scuro mentre prende un foglio pulito.
“No... non in un altro foglio!” dice perentoria Rosa “lo voglio sullo stesso foglio: da buone amiche!” aggiunge con un sorriso serafico. La mascella di Pamela ha un fremito, ma la penna lascia uno scarabocchio sul foglio e Rosa è soddisfatta. “Adesso tocca a lei Dottore, ho l’impressione che dovrà fare gli straordinari, oggi!”


NUDA                                                                 
di Cristina Coppari

Mentre bevevano un tè, seduti davanti al camino, lui le aveva detto che non l'amava più. Poi aveva atteso che lei dicesse qualcosa, aveva appoggiato la tazza e se ne era andato. Era rimasta immobile, aveva continuato a mescolare il tè. Nella stanza l'unico rumore era diventato quello del cucchiaino che tintinnava. Si disse che lui non faceva sul serio; gli sarebbe bastato non vederla per un po', per rendersi conto che l'amava ancora. Rimase aggrappata a quella speranza: era più facile che affrontare la realtà.

Dopo due settimane dalla loro rottura Sean l'aveva chiamata: le doveva restituire delle cose che erano rimaste a casa sua. Laura fu felice di sentirlo. Si convinse che fosse un tentativo per avvicinarla. Ci rimase male quando vide che lui aveva già radunato tutto in una busta di plastica: tuta, shampoo, macchina fotografica, uno smalto, una spazzola, dei fermagli per capelli... piccoli oggetti che si era lasciata dietro.

Quell’estate erano stati nel Devon perché lui voleva farle vedere il posto dove era cresciuto. C’era una fotografia di loro due abbracciati; avevano riso molto guardandola. Chi l'aveva scattata li aveva inquadrati davvero male e non avevano avuto il coraggio di dirgli di scattarne un'altra. Laura ricordò l'aneddoto ma Sean fece solo un sorriso forzato e, indicando la busta, le chiese se mancava qualcosa. Quando lei fece segno di no, Sean guardò l'orologio.

Laura avrebbe voluto passare più tempo con lui; si sentì una sciocca per aver creduto che Sean avesse voglia di vederla.
Ripensò al viaggio in Inghilterra. Si erano divertiti. Lui non poteva aver dimenticato, si disse.
Lui l'amava ancora, ne era certa, era solo questione di tempo. Andò avanti a ripeterselo e la delusione a poco a poco scemò.
Lasciò passare qualche giorno poi lo chiamò chiedendogli di uscire, ma lui le disse che quella settimana era impegnato e che l'avrebbe richiamata. Laura aspettò. Dopo due settimane, cercò di convincersi che fosse troppo preso dal lavoro. Tuttavia quel pensiero non riuscì a rasserenarla.

Erano passati tre mesi da quando l'aveva lasciata.
Laura passeggiava in una via del centro quando lo vide uscire da un bar. Lo fissò per accertarsi che fosse lui. Quando fu certa che fosse Sean aumentò il passo per raggiungerlo. Era felice di rivederlo finalmente, stava pensando a cosa dirgli quando vide anche lei.
Indossava lungo cappotto di cammello, aveva i capelli biondi raccolti sulla nuca. Lui le stringeva la vita, stavano ridendo. Laura si fermò di colpo, avrebbe voluto nascondersi ma lui ormai l'aveva vista. La salutava con la mano senza smettere di sorridere. Le presentò Sonia. Una commercialista che aveva aperto uno studio proprio accanto al suo.

Tornata a casa non riuscì più a convincersi di niente: lui non sarebbe tornato. Rimase ore a guardare il fuoco nel camino. C'era un ceppo particolarmente grosso che faticava a bruciare. Pensò di aggiungere della carta, ma non ebbe voglia di alzarsi. Si guardò attorno per vedere se ci fosse un vecchio giornale a portata di mano e vide un guanto uscire dalla tasca del cappotto. Aveva stretto la mano a Sonia con quel guanto. Lo gettò tra le fiamme e lo guardò bruciare; poi lanciò anche l'altro nel camino.
Fece a pezzi il cappotto, lo bruciò. Si tolse il maglione, i jeans, il dolcevita; si levò il reggiseno, le calze, le mutande. Gettò nel fuoco tutti gli abiti e rimase in ginocchio davanti al camino a guardarli bruciare. I riflessi delle fiamme tremavano sul suo corpo bianco. Forse per il caldo, forse per il fumo che riempiva la stanza, per la prima volta in quei tre mesi pianse.


VIAGGIO INCANTATO                                 
di Enrica Della Torre

Il terrazzo è una esplosione di vegetazione. Mi avvicino alle piante d'edera e comincio a togliere alcune foglie appassite quando improvvisamente sento che i rami si appoggiano alle mani e mi accarezzano. Cosa sta succedendo?  E’ solo un’impressione? No! Qualcosa di strano sta accadendo perché vedo che i tronchetti della felicità escono dai loro vasi e cominciano a danzare, gli attrezzi appesi al muro si staccano e  anche loro iniziano la loro danza. Forse sto sognando?  Guardo davanti a me e l’orologio segna le 11.
Ad un tratto sento uno strano rumore provenire da sotto le beole. Mi abbasso e comincio a guardare attraverso le fessure ma sono così strette che non riesco e vedere niente. Allora mi stendo e comincio ad ascoltare. Quello che sento è il rumore dell’acqua che scorre.
Inaspettatamente le beole si spostano e mi fanno vedere che proprio lì sotto scorre un bel ruscello. Faccio un bel salto ed eccomi nell’acqua e mi lascio trasportare.
Ecco che quello che prima sembrava tutto così calmo comincia e fare dei vortici forse mi sto avvicinando ad una cascata. Ho paura!
Chiudo gli occhi e aspetto. Si è proprio così ho fatto proprio un bel salto ma adesso sto comodamente galleggiando nelle acque tranquille della grondaia. Questa tranquillità viene subito interrotta. Sento battere colpi secchi dall’esterno della grondaia. Ma cosa stanno facendo? Sì. Sono arrivati i pulitori. Un colpo più forte degli altri mi fa scaraventare nel pluviale. Sono  proprio nel suo interno. Qui è tutto terribilmente buio.
Inizia la folle corsa. Scivolo, scivolo sento che dietro di me sta arrivando l’acqua che mi spinge sempre più in fretta e più in avanti, chissà dove mai andrò a finire? Da quanto tempo sta durando questo terribile viaggio? Non riesco a pensare a niente voglio che tutto finisca al più presto. Ed ecco che nessuna corrente mi spinge più e sono in acque ferme. Forse è la mia fine. Ma ad un tratto sento dei  colpi metallici un forte rumore, quasi uno stridore qualcuno sta sollevando qualcosa. Stanno sollevando il tombino. Mi hanno vista! Allungano le mani e mi aiutano ad uscire. Sono salva! Posso ritornare a casa, andare sul terrazzo e scrivere di questo mio viaggio.


CARMELA SARTA                                         
di Enrica Della Torre

Carmela, la sarta, era lì nella stanza prove e aspettava con il vestito rosso in mano. Era veramente soddisfatta del risultato. Chissà se a Raffaella sarebbe piaciuto?
“Buongiorno Carmela”.
“Buongiorno Raffaella. La sto aspettando da più di un’ora”.
“Carmela sono una persona che ha mille cose da fare. Questa mattina, per prima cosa mi sono vista con il coreografo, poi alla sala trucco ed infine mi tocca arrivare qui da lei”. 
“Su, Su! Adesso facciamo in fretta, andiamo a provare l’abito rosso”. Sempre un tono così arrogante questa donna pensò Carmela.
Raffaella indossò l’abito rosso e con Carmela andò davanti al grande specchio.
Raffaella si girò sul fianco e disse: “Il corpino va bene, le maniche sono perfette, ma la lunghezza proprio non va, bisogno accorciare di almeno venti centimetri”.
“Raffaella questa è la lunghezza che è stata decisa dal costumista”.
“Faccia come le dico, accorci questa gonna come le ho detto. Non è possibile! C’è sempre qualche altra persona che deve decidere per me”.
“Chi lo dice al costumista?” 
“Non si preoccupi, glielo dico io” rispose Raffaella. “Anzi le dirò di più, non voglio fare altre prove... Adesso vado perché ho ancora tanto da fare...” concluse Raffaella.
Carmela avrebbe voluto risponderle che quel tono arrogante non le piaceva affatto, che erano entrambe due persone che stavano lavorando e lei non doveva pensare che tutto le fosse dovuto, perché era Raffaella.
Raffaela si rivestì in fretta ed uscì.
Carmela prese il vestito in mano e intanto nella sua mente cominciava a balenarle un’idea. Doveva assolutamente dare una lezione a quella presuntuosa, che si credeva una star e invece era solo un’arrogante...
Cominciò a scucire l’orlo, tagliare quello che doveva essere tagliato ed ecco che le venne l’idea. Metterò nell’orlo la mia speciale fettuccia, pensò, così il vestito apparentemente sembrerà perfetto, ma quando “lei” lo indosserà e comincerà a ballare il peso della fettuccia inserita farà pesare l’abito e la “signorina” farà proprio una gran faticaccia e penserà: Che cosa sta succedendo? Non so più ballare, sto proprio invecchiando!

Questa volta sarà lei che dovrà abbassare le arie, e chiedersi come mai una star del suo livello non sia più in grado di fare uno spettacolo.
Forse questo piccolo scherzetto la farà un po’ riflettere.
Certo che, per delle persone di successo, cominciare ad avere la percezione che la vecchiaia incombe deve essere veramente difficile da accettare. Questo è quello che pensò Carmela quando mise al suo posto l’abito rosso e chiuse la porta della stanza prove.


IL FUOCO                                          
di Gabriella Milanese

Ve lo siete mai chiesti cosa significa per un postino “Natale”? Avete un’idea della quantità di posta che ci piomba addosso sotto le feste? All’improvviso tutte le associazioni si danno appuntamento e comincia l’invasione delle richieste di aiuto per i ciechi, i vecchi soli, le donne maltrattate, le vedove e gli orfani... E non dimentichiamo i canili, le leghe antivivisezione, per la protezione degli animali… Ma chiudiamola qui.
In breve, ho calcolato che a Natale ogni famiglia riceve in media 65 richieste di aiuto.
Adesso spostiamo l’attenzione dalla posta al postino, cioè al sottoscritto, Mario Lettere (ironia dei nomi), che svolge questo lavoro da 36 anni, cinque mesi e 22 giorni, che con l’età è diventato presbite e che, per leggere gli indirizzi, ora, deve mettere gli occhiali. Questo problema degli occhiali unito all’incremento esponenziale della corrispondenza natalizia ha comportato un raddoppio di movimenti legati al mio lavoro. Non sono più giovane, e questa situazione non la reggo. Ergo serve una soluzione.
Dopo uno studio attento della questione ho trovato un metodo efficace per ridurre il carico senza dare nell’occhio: l’eliminazione del 56% delle richieste di aiuto. Ogni famiglia riceve il 44% della solita corrispondenza natalizia e sicuramente nessuno, nei giorni frenetici che precedono il Natale, si accorge di niente. Qualcuno potrebbe dirmi: questo comportamento è poco etico. Di un’etica che non considera quanti alberi bisogna tagliare per una corrispondenza che, nel 78% dei casi. non viene nemmeno letta, non me ne importa niente.
Prima di organizzare un bel falò, devo aggiungere un particolare: da quando mia moglie mi ha lasciato per mettersi con il suo principale, cioè da 7 anni, 3 mesi e 17 giorni, non ho mai smesso di pensare a lei, anzi le ho scritto almeno 3 volte alla settimana, per un totale di 1156 lettere. Lo so che sembra un po’ folle, ed in effetti lo è. L’amavo tanto e che ero pronto a fare tutto quello che voleva pur di renderla contenta. Diciamo quasi tutto. Lei mi ha fatto capire che avrebbe voluto un figlio, ma io, su questo punto, ho sempre rimandato. Lei sembrava aver accettato di buon grado la cosa, o almeno così mi sembrava. Nelle lettere che le ho scritto non ho fatto altro che chiederle perché mi avesse lasciato. Mi sono dichiarato disposto a tutto pur di soddisfare i suoi desideri. Il punto è che io, queste lettere, non le ho mai spedite.
Ora è successo che, proprio in questo periodo natalizio, un collega si è dato malato e ho dovuto sostituirlo. Il caso ha voluto che tra le vie che mi sono state assegnate ci fosse anche quella dove adesso abita mia moglie. Da quando se ne è andata, ho sempre evitato di incontrarla, anche se quasi ogni giorno, conoscendo i suoi orari, mi sono appostato per anni vicino a casa sua per guardarla almeno da lontano. Da qualche tempo non riuscivo più a vederla. La cosa mi agitava. Questa sostituzione mi ha offerto una possibilità insperata: avrei potuto finalmente parlarle.
Ci ho pensato su per una notte intera e poi ho deciso di scriverle una raccomandata che fosse il distillato di tutto quello che sentivo. Ci ho lavorato sopra per tre giorni. Mi sono presentato a casa sua. Non sto a raccontare quante volte mi sono avvicinato al suo portone senza riuscire a suonare il campanello. Alla fine, dopo sette anni, ho risentito la sua voce al citofono. “Una raccomandata da firmare”, ho gridato con una voce resa irriconoscibile dall’ansia. E alla fine ci siamo trovati uno di fronte all’altra: lei era sempre lei, bellissima, ma con quell’aria consapevole e serena che hanno tutte le donne quando aspettano un figlio.
Io sono rimasto immobile, incapace di spiaccicare parola.
“Ah, sei tu?” ha detto lei con un sorriso lievemente compassionevole. “Sono contenta di vederti. Lo so che hai continuato a spiarmi per tutti questi anni e io ero quasi decisa a denunciarti, ma ho preferito lasciar perdere. Sai, quando si aspetta un figlio, si diventa più generosi. Adesso che mi hai vista spero che mi lascerai finalmente in pace.”
Ha chiuso la porta e io sono rimasto lì, per parecchi minuti (non so quanti), con in mano la mia raccomandata, ormai superflua e un po’ ridicola. Poi sono tornato a casa. Ho preso le 1156 lettere più la raccomandata, le ho messe in un sacco, in attesa di far finire anche loro in un bel fuoco liberatore.


IL SOPRAVVISSUTO                                                   
di Gianluca Aiello

BEFORE (Quel che è successo prima …)
Eravamo in tanti, qui stretti, fermi sugli scaffali ad aspettare annoiati.  Avremmo voluto uscire, per compiere la nostra missione.
Alcuni impartivano conoscenze a giovani studenti; altri raccontavano storie di tempi lontani  a romantiche pensionate. Alcuni di noi, dotati di figure, venivamo sfogliati da bimbi curiosi al momento della nanna.
Però, prima di uscire da qui  e fare il nostro viaggio, potevano passare mesi di noia. Schierati come soldatini. Per fortuna, i nostri custodi ci volevano bene.  Ci sistemavano con cura sugli scaffali di legno. Ci toglievano la polvere e ci davano una bella lucidata.
Ogni tanto si sentiva qualcuno che gridava: “AIUTO! AIUTO!”. Stava, certo, scivolando via.  Ma non c’era da temere: i vigili custodi lo rimettevano nella giusta posizione.
Molti di noi  - col tempo  - assumevano una brutta cera. Ingiallivano, s’impolveravano e ammuffivano.  Segno che la fine si avvicinava. “Non voglio essere macellato!” - si sentiva gridare per gli scaffali. Poveri disperati, presi da un attacco di panico: tutti sapevamo che si finiva nella raccolta differenziata...

AFTER (Quel che è successo dopo…)
Ti starai chiedendo, Lettore, chi sono? Come ho fatto a sopravvivere per così tanto tempo? Ebbene, adesso non posso dirti tutto, la storia è lunga e non mi va di raccontarla tutta.
Sappi solo che sono un libro almanacco, sopravvissuto a un’invasione aliena avvenuta tanto tempo fa. Quelli li chiamavano... non ricordo più, ma si trattava di bit, di gigabyte, di schermi a cristalli liquidi...
Sebbene molti umani agli inizi non riuscivano a staccarsi da noi per il legame affettivo che si era creato, gli ... ah ecco sì!  ...  gli e-book presero il sopravvento.
Si consumò così una tragedia: noi libri “mortali” perdemmo la partita con gli “immortali” , così chiamavamo gli alieni,  libri senza pagine, con una sola copertina lucente.
Io, forse, sono l’unico sopravvissuto. Non so come mi sono salvato, so solo che ora sono in un museo, dietro ad una lastra di vetro, in atmosfera protetta.
L’ambiente è fresco e illuminato. Una luce perenne non mi fa invecchiare, rendendomi immortale come “loro”, i diversi. Nessun umano mi tocca o mi sfoglia, rimango sempre aperto sulla stessa pagina, l’unica che i visitatori leggono incuriositi.
 I tempi della biblioteca non li rimpiango più. Mi ammirano e, sebbene ora sia solo, mi sento felice.


IL CAPRO ESPIATORIO                                                        
di Gianluca Aiello

 “A casa, sono le sette! E’ ora!”. (Suona il fischietto)

Il tempo a disposizione per giocare in cortile è finito, ma nessun  moccioso rintana a casa sua.  Lo so che devo andare di bestia,  tutte le sere la stessa storia, una gran fatica per farli tornare nelle loro case. Ma come osano?  Non sanno che io sono la "portinaia": il custode di questo cortile?

Quelle canaglie tormentano i signori del condominio in tutti i modi: s'arrampicano sugli alberi, spezzano rami, bivaccano sulle scale, sporcano vialetti con le loro scarpe infangate, pasticciano muri, lanciano sassi contro i lampioni, girano con le loro diavolo di biciclette dove gli pare e piace disfacendo aiuole di viole e margherite,  tirano pallonate contro i muri producendo un  rimbombo che si sente fino all’appartamento dell'ultimo piano.

I signori del condominio non hanno una briciola di coraggio, incapaci di tenere le canagliette a bada, tempestano di telefonate l'amministratore di condominio, il quale poi va di bestia con me.
Ma le canagliette ce l’hanno soprattutto con me: un giorno mi hanno tirato una pallonata contro la scala, mentre stavo pulendo i vetri,  un altro giorno, sto cambiando una lampadina e mi lanciano un gavettone, così prendo una scossa da lasciarmi secca...

La cosa che mi fa impazzire è che la gente giustifica: - “Sono bambini, si sa, sono incidenti …”

Ma quali diavolo di incidenti?

E allora cosa  dire del petardo che mi ha fatto saltare in aria, mentre cucinavo? Cosa dire dell'allagamento provocato nello scantinato che mi ha costretto a ramazzare per una settimana intera? E le pallottole di pongo sparate con la cerbottana e dirette contro il mio... di-dietro?

Ma “loro” non sanno che  io sono la "portinaia" e mi devono portare  "rispetto".

“A casa, a casa!”. (Suona il fischietto)

Giocano a nascondino. Mi sono rotta!

Scovo il peggiore della banda dietro a un cespuglio. Gli grido che quando sente questo accidenti di fischietto non deve farmi incavolare: deve filare dritto a casa! Spuntano gli altri amichetti: uno mi grida: "Cicciona!", un altro mi fa il gesto del dito medio, un altro si leva i pantaloni mostrandomi il suo didietro.

Mentre scappano, Marchino il figlio del vigile inciampa, lo acchiappo per il braccio e lo trascino fino al gabbiotto.

Gli altri vigliacchi ce l’hanno fatta. Uno mi basta. Il gaglioffo si dimena.
Braccini mocciosi. Tutti devono sapere che io sono la portinaia. Forza! nel gabbiotto!

Il mio cane impazzisce per l’odore del sangue...

Abbasso le tende e tolgo la catena. La cena è servita.


VITA
di Giovanna Fiorani

Stagioni
     La città si sveglia
     intorpidita dal freddo della notte
     piano piano apre gli occhi,
     ma questa mattina, come una vecchia signora stanca
     si è coperta con il suo mantello bianco.

E' il fruscio del vento che sferza
                Tra gli alberi verdi e frondosi del Parco
                A dirci che la vita
                Ricomincia a pulsare con vigore.
                  
                      Con misurata lentezza il Parco tutto
                      Si trasforma in un caleidoscopio di colori
                      Le foglie volteggianti
                      Come bambini festosi si rincorrono.                        
                                  
Nella calura assolata il Parco        
                Spalanca i suoi alberi generosi
                Offre la sua ombrosa anima 
                Al riposo di chi lo vive.


Amicizia
    Lo sguardo degli occhi
    Il calore del cuore
    L'abbraccio delle mani
    Questi i segni che ci uniscono.


I bambini di Terezin
    Hanno preso i nostri giochi
    Hanno preso la nostra gioia
    Hanno preso la nostra spensieratezza
              
    Eravamo acciambellati come matasse di filo spinato
          
    Sentivamo nei nostri cuori
    Il pungere di quel filo
    Ma disperazione e rabbia
    Si soffocavano in gola

    Perché ci hanno preso la vita?


IL COLOMBOFILO                                                    
di Maria Grazia Fucile

Che faticaccia! Portare giù tre ceste di colombi, senza l’aiuto di nessuno, mi ha già sfiancato.
Non importa. Forza!
Sistemale al meglio nel bagagliaio dell’auto. E senti che mormorio! Fanno un concerto tra loro … che mi accompagnerà di sicuro fino alla sede di ingabbio.
Ohohoh … fatto!
Chiudi il portellone, apri il cancello del cortile e … via a tutto gas!
La mia V40! Che libidine! Sembra volare sull’asfalto. Paderno arrivo!
Caspita, non sei così puntuale come gli altri venerdì, incominci a perdere i colpi vecchio mio. E se non fosse per la Volvo, come faresti a farci stare comodi tutti questi … bambini?
Ciò che spesso mi indispettisce è quando sento dire che questo sport è un bellissimo gioco.
Un gioco!
Momento per favore!
Non sottovalutate troppo la cosa per piacere! I colombi viaggiatori vanno curati, seguiti e tenuti in condizioni ottimali come avviene per gli atleti che si preparano per le gare. Ci sono una scienza ed una filosofia dietro a questa attività.
Però, in effetti, sì … posso dire che mi diverto molto … ecco, non come se giocassi; questo no! Ma la passione sfrenata che mi riempie la mente, che agita il mio corpo e che mi fa trascurare ogni altro impegno familiare al momento delle gare sviluppa certamente in me più adrenalina che se andassi a giocare a pallone o mi mettessi a combattere con un videogame ...
Questa passione mi attraversa ormai da trent’anni. Trent’anni!
Quante gare! Quante vittorie, ma anche quante amarezze … e quante spese!
Non è più un gioco quando perdi il tuo campione più caro o quando ti distrai al momento dell’arrivo e non riesci a timbrare in tempo il tuo ipotetico vincitore!
Su, fate i bravi lì dietro, siamo quasi arrivati … tra poco vi fate un bel viaggetto comodo comodo. in compagnia con i vostri amici fino a Fano.
Oh, Pinturicchio, mi raccomando! Domani non mi deludere! Ehi tu, Neutrino Fulmine, cerca di bissare il successo di settimana scorsa! Mah … non so … mi sento che stavolta arrivano per primo il “64” e, per secondo, il “ 98” … Vedremo! In effetti domani dà nuvoloso con minaccia di pioggia e quando la situazione si fa dura …
Certo che, quando salgo in soffitta e me li vedo tutti lì nelle loro poste … i trigani, i monari, i bigi e gli zarzani … sembra proprio di vedere dei bravi bambini in attesa del loro papà.
E come mi vengono incontro … e non solo per il cibo!
C’è la Bigina che mi continua a cercare. Mi vola attorno come se mi volesse corteggiare. E che indole docile è quella di Birillo. Come si gode a posarsi sulla mia spalla o a svolazzarmi tra  i capelli!
Guai se li sposto, se c’è un qualche imprevisto, se entra una persona estranea: cambiano subito umore e si agitano … con il rischio di non fare più bene la gara.
E come si lasciano curare quando tornano a casa feriti e sfiniti dopo un volo disperato! La loro caparbietà genetica li spinge a non mollare mai! Ad adempiere comunque il loro mandato fino alla morte!
Quanti ne ho cuciti perché, volando, hanno sbattuto contro i fili della corrente elettrica o hanno trovato un qualsivoglia ostacolo! Del resto la loro folle velocità li mette quotidianamente a rischio!
Quante volte ho dovuto steccare loro una zampina o bloccare un’ala rotta! Vi ricordate? Sono proprio un bravo infermiere, vero? Ma quanti anche ne ho persi di veramente cari!
Lo so  che avreste tante cosa da dirmi, potreste raccontarmi di tanti luoghi attraverso i quali siete passati veloci sempre dritti alla meta …. potreste confidarmi dei vostri innamoramenti … forse potreste anche avere da dire qualcosa su di me … con tutto quel brontolare che fate … chissà!
Oh ecco! Siamo arrivati: sede di ingabbio. Si parte per un’altra bella avventura! Non c’è che dire, siamo proprio una bella squadra, affiatata e vincente! Vero?


I TRE INSEGNAMENTI DI ROBERTA (dal racconto LEZIONI DI TRUCCO)
di Marianna Concio

Alle nove di martedì sera, in Via Vitruvio 43, Roberta corre alla ricerca disperata del suo piegaciglia; in sottofondo, gli "Industry" strimpellano: "Don't you worry 'bout the situation...".
Con tutte le luci di casa accese, Roberta brancola nel buio. Se sua madre fosse piombata lì, senza preavviso, e avesse trovato... Decide di ripercorrere i propri passi.
"Ricapitoliamo...” si dice. “Nell'armadietto in bagno non c'è.... l'altra sera stavo guardando la tv... ho visto che la Carlucci aveva le ciglia dritte come spazzole di saggina e ho giurato a me stessa che non avrei mai... perciò...  sono andata in bagno, l’ho preso, sono tornata in cucina, mi sono fermata davanti al forno e..."
Dentro il frigorifero! Roberta esulta con gridolini degni di una soprano; e il ragionier Colombo: "La finiamo di fare casino o no?!? Qui c'è gente che domani va a lavorare!"
"Ma falla finita, bauscia". Il Colombo! Guastafeste e ipocrita...
Il trillo del citofono interrompe la sequela di insulti che Roberta ha in serbo per lui. "Sì...?"
"Ehm, buonasera, è la signora Roberta? Sono Deborah... per la lezione di make up..."
"Oh, certo cara! Sali pure, scala B, terzo piano".

Deborah le appare come una donnetta scialba... capelli biondi slavati, occhi azzurro pallido e pelle bianca, malaticcia. E questa sarebbe una femmina?
"Oh ciao cara! Allora sei tu la migliore amica di Chiara? Come sei... mmm... graziosa! Vedrai, da stasera grazie a me, sarai ancora più bella! Anche se... vista la materia prima, ci vorrà un po’, dovrai impegnarti al massimo... non ti nascondo che non tutte sono in grado di apprendere appieno i segreti del maquillage e... oh, che sbadata! Uso sempre questi termini tecnici... ma tu sai cosa vuol dire ‘maquillage’, vero tesoro?"
"Be’, vuol dire ‘trucco’, credo... o no?", rispose, alla fine.
Ignorante!
"Oh non proprio, tesoro! Per essere precisi si traduce come "imbellettatura" ovvero sia, secondo il Sabatini Coletti, l'arte di darsi il belletto, cioè i cosmetici, sul viso... sei d'accordo vero? Bene! Cominciamo! Vieni". Roberta si avviò, sforbiciando, lungo il corridoio.
Con una stretta di mano d'acciaio, trascina Deborah verso la porta bianco laccato in fondo al corridoio. La stanza da bagno di Roberta: il suo vanto e lo scorno dei vicini di pianerottolo, che l'accusavano di gestire un salone di bellezza non autorizzato. Occupava sedici dei quaranta metri quadrati della casa, ottenuti a sacrificio di una cameretta e del ripostiglio; all'interno, sulla parete di destra, una specchiera a muro con attaccati due lavandini di marmo; di fianco allo specchio, un armadio a due ante scorrevoli, che celava virtù e segreti della padrona. Sulla parete opposta, adagiati su mensole di marmo nero, ninnoli argentati, boccette di profumo, ignoti barattolini luccicanti, piumini, pennelli...
Un gridolino, tipo richiamo ad ultrasuoni per balene, riscosse Deborah dal suo sogno stile Maria Antonietta.
 "Oh, bene! Siediti qui cara. Vedi quel buffo mobiletto? Ecco, quello è il mio sgabello... Oh, vediamo un po’ cosa trovo per te...".
Roberta selezionò un detergente per il viso, il tonico, la crema da barb...
"Mmm... no, questa direi di no..." 
Mentre Roberta rovistava Deborah s’era messa a sfogliare una rivista inglese, tutta dedicata al carnevale di Rio. La padrona di casa gliela sfilò di mano "Non distrarti, adesso cominciamo. La prima cosa da fare, è accendere la luce del bagno... Primo insegnamento di Roberta: mi raccomando mai truccarsi al buio...".
"Luci accese, anche di giorno", confermò Deborah.
"Brava, come a scuola guida! Ma entriamo nel vivo. Il secondo passo da compiere è aprire il mobiletto dei cosmetici e prendere tutto il necessario per la pulizia viso. Ecco il secondo insegnamento di Roberta: il latte detergente, il tonico e la crema idratante devono essere tenuti in bagno, in un mobiletto, possibilmente vicino al lavabo. Chiaro? Sappi che è essenziale, vitale, capitale e fare in modo che il viso sia perfettamente pulito e glabro prima del make up".
"In che senso glabro?" sbottò Deborah "non vorrai che mi faccia la barba!". Proruppe in una risatina isterica: "Eh, eh... cioè... dài.. di certo tu non ti radi la facc... oh, porca miseria!!"; Si accorge della gaffe madornale. "Scusami, davvero... io non mi ero resa conto che tu... gli ormoni e tutto il resto..."
Roberta: "Allora, prima di tutto, per pulire il viso devi bagnarlo e, per fare questo, ti serve l'acqua. Quindi, devi aprire il rubinetto: mi raccomando che l'acqua sia fredda! Vedi, devi ruotare la leva dove c'è il pallino blu, simbolo internazionale che sta ad indicare le basse temperature... chiaro tesoro? Stai attenta a non sbagliare o rischierai di andare in giro con i pori così dilatati che rischieresti di essere scambiata per la mascotte dell'emmental svizzero! Chiaro, amore? Questo è il terzo insegnamento di Roberta!"


ERA BELLA                                                           
di Marina Giudici

Era bella tristemente amorevolmente bella non aveva altro solo quella bellezza che lasciava di stucco tutti quelli che le passavano accanto aveva una bellezza che ti prendeva in mano il cuore e lo lasciava solo dopo averlo amato. Amato con tutto il suo corpo il suo corpo nudo e null'altro nulla neppure un lenzuolo non sapeva come andare avanti se non così con incontri sporadici raccolti tra i sedili del cinema oppure al bar o al ristorante dove tutti ormai sentivano il suo profumo e il suo calore sulla pelle. Lasciavi correre, tesoro, che hai sfidato persino le corse lungo la ferrovia il treno ti aveva portata lontano, lui ti aveva amata diversamente sembrava qualcuno pronto ad inginocchiarsi davanti al tuo cammino ma non era stato così, solo poco il tempo di sentirsi ora il tuo padrone, del tuo corpo del tuo respiro dei tuoi occhi... annullare così la tua vita la tua voglia di conoscere ogni giorno un nuovo modo di baciare di abbracciare di stringere trepidante il tuo corpo lasciato sul tappeto persiano che ti piace tanto, ti piace coricarti lì sopra sulla terra in un certo senso e senti scorrere gli anni lì, sopra un corpo che ti strappa la paura di rimanere sola dimmi allora quanto saresti disposta a pagare pur di non rimanere sola? Non lo sai nessuno ti ha mai detto quando eri bambina "guarda che vali" "non ti preoccupare tu sei importante" "sì brava, sì brava " nessuno, ti sentivi l' ultima ed ora sai che sì volendo tu sai volare ancora più in alto dell'aquila ma guardi il suo volo fino alla cima della montagna e temi che da un momento all'altro possa precipitare al suolo senza più le sue meravigliose ali. E lì la paura del silenzio, oscuro, senza peccato ma senza la voglia di correre per strada incontro al giorno. E lasciare così cadere il giornale appena acquistato non si può fare altro che chiudere gli occhi e dire "Beh, sì, ho vissuto ci vediamo domani no anzi addio io parto vado via sì è vero parto io parto io posso andare all'altro capo del mondo il mondo mi guarda stupito: ADDIO”.


SEDUTA SU QUELLA SEDIA                                                        
di Marina Giudici

Seduta su quella sedia non sai davvero che fine farai chiusa la finestra e tutti i giochi di una volta che correvi lontano senza saperlo e poi hai chiuso gli occhi per sempre alla ricerca di una storia nuova ma hai ancora nel cuore il sogno di una bambina che ascoltava la notte e quando apriva al giorno la finestra dimenticava quello che il buio aveva raccontato ora ritorna nella stanza la finestra chiusa e i canti lontani non fanno distrarre la mente ora quieta si ferma allora il pensiero il ricordo lasciano cadere cascate non mai dimenticate e in questo grande tumulto risorge il mondo dimenticato bisogna lasciar correre non solo l'acqua non solo i pensieri bisogna lasciar correre i giorni che non ci lasciano mai e tengono al guinzaglio la consapevolezza di un unico desiderio forse sogno o forse niente niente niente forse solo il silenzio il vuoto il nulla ritorna e poi lascia uno spiraglio afferra ora quello che vedi apri la tela che ti separa dalla conquista di un grande mondo di fiabe e non solo quello anche il mondo della nostra lotta contro i mostri di domani quelli che ancora non vedi gli occhi sbarrati e non voler capire più nulla


IL MEDICO                                        
di Ottavio D’Alessio

«Non sanno chi è. Non sanno chi è questo stronzo. Possibile? Possibile che sia io il solo, qui dentro, in questa corsia, o addirittura in tutto l’ospedale, a sapere chi è? Questo strozzino figlio di puttana, che non è ancora morto, liberando il mondo, che dico, l’universo intero, della sua meschina presenza, adesso è qui, davanti a me, e respira. Respira, il bastardo. E io dovrei badare che continui a farlo. Che questa macchinetta che lo tiene in vita continui a funzionare, privando l’energia a un asciugacapelli. Mi hai rovinato, bastardo. Me, e chissà quanti. Che dici, eh? Vogliamo provare? Vogliamo provare a fare un giro, corsia per corsia, piano per piano, stanza dopo stanza, strappare via questi cavi e spingere il letto fuori da qui? Vuoi vedere che lo troviamo qualcuno come me? Qualcun altro che hai rovinato? Eh, che dici bastardo, ce lo facciamo un giro? Eccolo qui, signore e signori, il nostro benefattore! Il salvatore, buono e generoso, quello che ci avrebbe tolto dai guai. Guardatelo! Non lo riconoscete? Com’è possibile? Ah certo, la boria, quella sua boria stampata in faccia! Dov’è finita, eh? Dillo, dillo a tutti dov’è finita. Ti ha preceduto all’inferno?
Oh sì, eccome se mi piacerebbe farlo, questo giro. E invece no, non si può fare. E ti dobbiamo anche nutrire, goccia dopo goccia. Te, che goccia dopo goccia mi hai levato il sangue dalle vene. A me, e chissà quanti. Perché qualcosa devo pur dire a quella gente che mi aspetta di là, nel salottino. Tua moglie, i tuoi figli. Certo, i figli, perché anche i figli di puttana come te si riproducono. E’ la continuazione della specie. E vorranno sapere, hanno diritto di sapere. Che gli dico, eh? Che si farà di tutto per salvarti la pelle, ovvio, e che altro si può fare? Siamo medici, noi, mica assassini. Contento? Potrai tornare a fare quello che facevi prima, rovinare la gente.
Quella cannula, mi basterebbe annodare quella maledetta cannula e sarebbe come strozzarlo senza sporcarsi le mani. Dio, come vorrei non aver mai giurato».


MÁRQUEZ E L’INSEGNANTE DI FRANCESE                        
di Ottavio D’Alessio

«É la erre mia cara, è la erre che la tradisce»
«Vero, otto anni di Colombia, marito colombiano, non vedo Parigi da tre, e ancora non ci siamo»
«Ma è la sua fortuna»
«La mia fortuna?»
«Certo, la sua fortuna. Vede, noi ci siamo incontrati qui, per caso, su questa carrozza, lei non mi conosce, io non la conosco, tra pochi minuti arriveremo a Santa Marta. Io scenderò, lei proseguirà il suo viaggio per… dove ha detto che vive, Barranquilla, Cartagena? Insomma, ovunque lei vada, molto probabilmente non ci incontreremo un’altra volta»
«Beh, mi dispiace. Tuttavia, sa com’è la vita, non si può mai dire»
«Oh sì, la vita… di nulla vi è certezza. Ma, tant’è, per un periodo di tempo limitato lei si ricorderà di me forse per qualcosa che ho detto, qualcosa che l’ha colpita, oppure per un particolare del mio viso, o che altro… questo bizzarro cappello texano» disse, levandoselo e girandoselo tra le mani come se non fosse più convinto di volerselo rimettere «oppure, chissà, per questa follia di colori che indosso. Bene, io mi ricorderò di lei per la sua erre»
La donna accennò un sorriso. Mitigò un lieve imbarazzo volgendo lo sguardo fuori dal finestrino. Il treno procedeva lento nel verde intenso delle piantagioni di banane, fiancheggiando villaggi di baracche sparse e sciami di bambini che correvano scalzi. Faceva caldo, un caldo umido, soffocante, che passava la voglia di respirare.
«Ah, la mie erre, lei dice»
«Sì, la sua erre. La trovo molto… seducente» continuò l’uomo. «In queste due ore di viaggio lei ha parlato molto. Mi ha raccontato tante cose della sua vita, di suo marito, di quel che fa. E poi la sua famiglia, le amiche e… cos’altro? Ah sì, la scuola! Inconcepibile, mi stavo dimenticando della scuola dove insegna. Insomma, lei ha parlato di un’infinità di cose. Lo confesso, se adesso, in questo preciso istante, mi chiedesse di rimettere insieme due frasi due, di quanto mi ha raccontato, perderei la sua stima. Ma la sua erre… ah, la sua erre. Lei non s’immagina nemmeno. Ha accompagnato come una lontana melodia le mie fantasie sessuali su di lei»
Il volto della donna s’infuocò. «Prego?» disse sbalordita.
Quell’uomo, le sue frasi raffinate, tutta quell’aria da intellettuale… stava viaggiando in compagnia di un vecchio porco!
Le venne di guardarsi intorno. Un uomo molto anziano con un completo bianco la fissava divertito, come se pregustasse qualcos’altro che era lì e che stava per arrivare. Una suora, seduta accanto a lui, il capo chino sul suo breviario, senza scomporsi sollevò le palpebre, di poco, quel tanto che bastava per accennare uno sguardo basso, defilato. Che più che uno sguardo sembrava un avvertimento.
«Ma come si permette?», aggiunse la donna. E d’istinto afferrò dal sedile vuoto alla sua destra la borsetta in pelle e se la strinse sul ventre come per aggrapparsi a qualcosa di saldo.
«Sì, signora. Mentre lei mi vomitava addosso la sua vita scadente e noiosa, pensando forse che mi potesse in qualche modo interessare, quella erre per Dio, la sua erre, lei non ha idea di quanto mi sia immaginato di scoparla»


MICHELA E COLOMBA                                                                           
di Paola Roda

Quando Michela nacque, Colomba c’era già.
In gioventù era stata un’osteria, con tanti tavolini, la domenica sempre affollati da giocatori di carte chiassosi e fumosi. Quando i nonni di Michela si trasferirono dalla grande città in quel paesino sulle rive del fiume Lambro, lei diventò SOLO la loro casa.
Costruita in chissà quale epoca, era cresciuta nel centro del paese, poco distante dalla chiesa, di cui ascoltava i rintocchi delle campane, una musica dolce e ripetitiva come un tam-tam bronzeo. Colomba era robusta, due piani, tante stanze che una volta accoglievano solo per una notte viandanti frettolosi. La cantina, con la volta di mattoni, impregnata dell’odore del vino e con i salami appesi ad aspettare la giusta stagionatura. Il tetto: una cascata di tegole rosse come riccioli laccati.
Ogni fine settimana, Colomba aspettava Michela con quella sua semplicità contadina, abituata com’era a vivere in un luogo dove il tempo era scandito dai ritmi della campagna e dai suoi rituali.
Michela muoveva i primi passi e lei, Colomba, ogni volta le preparava una sorpresa: i piccoli conigli nati nella stalla, le anatre nel pollaio, taciturne conviventi delle più petulanti galline e, ancora, fiori, frutta e verdura nell’orto del nonno durante l’estate.
Erano come due sorelle, tanto erano affiatate.
Quanto avrebbe voluto raccontare alla sua piccola amica quello che accadeva durante la settimana : “Ieri Tugnin Dusin è andato nei campi con un nuovo trattore: eh, sì! Fortunato lui!... La mucca della signora Maria due giorni fa ha partorito un vitellino... La lattaia, quella grassa, ogni sera passa trainando il carretto e annuncia l’arrivo con la solita sfiatata trombetta. Già! Troppo tirchia per comprarsene una nuova, e poi la vedi la domenica alla messa con la pelliccia, lei e quella zitella della figlia”
Rotolarsi nel fieno, infilarsi in tasca le fragole appena colte e farne marmellata istantaneamente, il profumo del roseto di Santa Rita, la vendemmia, gli insetti, i ricci che passavano furtivi rasenti la stalla, i gatti del vicino che sornioni e pigri consumavano il loro tranquillo poltrire sulla catasta di legna, preparare il pastone per i polli con la nonna affondando mani e braccia nel mastello per mescolarlo e poi dar da mangiare alle galline.
Il tempo inesorabile passava e Michela, la bambina, lasciava il posto ad un’adolescente timida e insicura e anche Colomba si trasformava.
I nonni erano ormai morti, l’orto diventava una giungla di erbacce, i conigli non abitavano più la stalla e dal pollaio non giungevano più il coccodè delle isteriche galline e il chicchiricchì del presuntuoso galletto. Colomba perse la sua ruspante genuinità, diventando però, una bellissima, elegante, attempata signora.
Michela fioriva all’adolescenza, Colomba fioriva nella tappezzeria sui muri delle stanze e nel grande cortile, una volta così caotico e senza un filo d’erba, ora interamente ricoperto da un mantello verde e fiori multicolori ovunque.
Nei fine settimana Colomba si faceva bella, pavoneggiandosi con sofisticata consapevolezza. Colomba e Michela tenendosi per mano camminavano verso il loro avvenire.
Improvvisamente, una notte d’estate tutto venne stravolto: la mamma di Michela morì.
Fu così che le due sorelle si ritrovarono orfane di chi le aveva guidate, accudite, sorrette, coccolate.
Si sentirono abbandonate e costrette a prendersi cura una dell’altra, ma Colomba era troppo vecchia e stanca, non riusciva più a seguire Michela, che da adolescente diventava donna.
“Sono diventata un impiccio per te. Questo mio corpo è troppo debole e logoro, vedi quante profonde rughe solcano le mie pareti”.
Michela perse tutti i suoi punti di riferimento in poco tempo e si ritrovò sola.
Il suo mondo era stato demolito, rimanevano solo calcinacci e schegge della vita di un tempo.
Come per Colomba.
La SUA demolizione venne scandita dal tocco mortale di una ruspa.
Il gigantesco braccio meccanico affondò nei tetti con freddezza e decisione, squartando le travi, lacerando i muri e briciole di mattoni zampillavano tutt’intorno come gocce di sangue.
Alla fine, solo polvere e macerie, un indistinto cumulo.
Colomba era morta.
Michela l’accompagnò in questo passaggio. “Arrivederci, cara vecchia amica e GRAZIE”.
Non c’era tristezza in quella distruzione, era una trasformazione: dai soffitti delle stanze del secondo piano, si vedeva il cielo e questo generava un’intensa sensazione di libertà e leggerezza.
Michela stava oltrepassando la soglia: stava diventando una donna.
Mentre Colomba veniva ricostruita, Michela, con tenacia e caparbietà, si ricostruiva e tutto accadeva all’unisono, quasi i due destini fossero legati da un filo sottilissimo: l’arredo delle stanze di Colomba portò la comparsa di nuovi amici e interessi nella vita di Michela, ma fu l’arrivo del camino, il cuore caldo della casa, e il suo completamento che portarono ben altro.
Gianfranco entrò nella vita di Michela in punta di piedi, quasi fosse stato lì ad aspettare che l’opera del mastro carpentiere si concludesse.
Riaprire le braccia per accogliere l’altro.


DAL MANZANARRE AL LAMBRO                                                    
di Renato Ghezzi

“Così non va.” Giuliano appallottolò il foglio, ne prese un altro e ricominciò a tracciare linee. “Dunque. Gli alleati qui, a difesa dell’Expo. Qui le destre. Poi la Lega, gli immigrati…Già, gli immigrati.”  Pescò dalla tasca della giacca un elefantino. L’ambulante glielo aveva regalato dicendo: “Sindaco. Può esaudire tre desideri.” Sì, magari. Fosse stato vero, avrebbe evocato un condottiero, uno stratega…
“Ma cos’è ‘sto casino in piazza?”
 “Signor Sindaco!” La sua segretaria si era precipitata dentro.”Giù da basso!” Scese i gradini tre alla volta. Al portone, gli uscieri cercavano di fermare un nanetto, in abiti bizzarri.
“Non è affar vostro chi sono. Lasciatemi. Devo vedere il Sindaco.”
Giuliano scese gli ultimi scalini. “Lasciatelo andare. So io chi è.” Gli uscieri mollarono la presa.
“Alla buon’ora!”, esclamò il visitatore, rassettandosi la divisa. “Siete Voi...?”
“Sono io, venga. Andiamo nel mio ufficio.”
“Voi sapete chi sono, e perché sono qui, vero?”
“Si, Generale. L’ho fatta arrivare io, qui.”
“Fatemi il quadro esatto della situazione. Ero a Grenoble nel 1815: sono a Milano, riconosco la Scala. Ma i vostri abiti sono piuttosto... inusuali... Spiegatemi.”
“Credo di averla fatta viaggiare nel tempo. Lei è a Milano, e oggi è il 9 Settembre 2011.”
“Ecco. Potete farmi tornare indietro?”
“Prima vorrei parlarle. Le voglio offrire l’inimmaginabile: essere l’unico uomo nella Storia a conquistare la gloria in due epoche diverse, distanti due secoli!”
“La gloria! E voi come potreste…?”
“Governiamo insieme Milano! Lei e io! Possiamo trasformare questa città, farla diventare il faro d’Europa!”
“Sì, bene, cominciamo!”
“La situazione qui è complessa. Devo mediare tra le tendenze nella giunta, gestire i rapporti con la Provincia e la Regione, trovare i fondi, tenere uniti i miei elettori…”
“Chi sono i vostri elettori? La nobiltà di Milano? Chi?”
“No. La gente, il popolo. Oggi si vota e chi prende più voti diventa Sindaco.”
“Barbari! Prevedo conflitti con il potere centrale.”
“Vero. Infatti ci ostacolano in tutti i modi.”
 “Quindi, dovete prendere voi il potere centrale. Non solo a Milano, ma anche nel resto della Repubblica Cisalpina.”
“Non potete sapere che, nel frattempo, l’Italia si è unita.”
“E la Francia quindi avrebbe permesso la nascita di un nuovo nemico? Sarebbe stata meglio un’alleanza di piccoli Stati che un’Italia rafforzata...”
“Beh, tanto forti non siamo.”
“E chi domina in Europa? Non ditemi gli Inglesi!”
“I Tedeschi, Generale.”
“I Prussiani, dite?”
“No, la Germania. Anche loro si sono uniti ed hanno un’economia fortissima. La Prussia non esiste più.”
“Manca solo che mi diciate che lo zar è stato deposto!”
“Da una rivoluzione. Ma non come la vostra. Quelli erano comunisti.”
“Comunisti!”
”Una specie di Giacobini. Ma sono caduti anche loro.”
“Lei è appena fuggito dall’Elba, sta tornando a Parigi per riprendersi l’impero, giusto? Se lei tornasse indietro, dopo pochi mesi si scontrerebbe sì con Inglesi e Prussiani, a Waterloo, ma verrebbe sconfitto. Finirebbe i suoi giorni in un’isoletta sperduta dell’Atlantico.”
“E voi cosa aspettate?”
“A far che?”
“A prendere il potere in Italia, allearvi con Francia e Germania, attaccare la Russia e l’Inghilterra.”
“Ma che modo di far politica! Non siamo in guerra!”
“La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.”
“No, lei non può dirlo. Questa è di… oh, be’. Comunque io non sono qui per questo. Io devo riparare le buche nelle strade di Milano.”
“Non avete ambizione mio caro! Che volete dunque da me? Non posso aiutarvi.”
“Infatti. Non abbiamo un terreno comune di dialogo.”
“Riportatemi al mio tempo, dunque.”
“Sicuro di voler tornare? Forse non le conviene.”
“Spiegatevi.”
“Oh, mon Dieu! Forse, però, cambiando strategia... ma certo! Ecco l’errore! Devo anticipare l'attacco, far correre Grouchy! Che Dio vi conservi... Forza, le truppe mi attendono!”
“Allora? Vuole ancora tornare nel 1815?”
“Non vorremo certo cambiare la Storia, no? Su, fate quello che dovete...”
Pisapia riprese in mano l’elefantino e pronunciò il secondo desiderio. Non ci furono fiammate, fumi o odore di zolfo. Semplicemente, Bonaparte scomparve, senza lasciare tracce. 
Pisapia si girò verso la scrivania. I problemi, ancora tutti là. Ma tra le altre carte, ora c’era anche un libro di storia, aperto. Invece di elencare tutti gli errori fatti dai francesi a Waterloo, l’inizio di capitolo recitava: “L’Imperatore, dopo la schiacciante vittoria su Wellington a Waterloo…”
Eh, no! Non glielo poteva permettere, a quel pallone gonfiato. “Che tutto torni come prima!” Il terzo desiderio!
Rilesse la pagina del libro. Sorrise, lanciò l’elefantino nella spazzatura e infilò la mano destra tra i bottoni della camicia, all’altezza del petto.


NEL TUO DORMIVEGLIA                                                                       
di Stefania Colucci

E' ora, alzati! Questo stato di dormiveglia in cui ti culli, ti fa male, perché mischi i sogni alla realtà, lo sai! Guarda, si vede che hai la bocca impastata, le labbra come terreno arido del deserto; vai a bere un po' d'acqua dal rubinetto del bagno, e già che ci sei, sciacquati la faccia. Sei uno spettacolo orrendo, il rimmel ora ti cola e riga il viso, sei una maschera triste, i tuoi occhi, laghi profondi e neri, che sfumano in modo confuso nel volto stanco e bianco. I capelli sono arruffati come il pelo del tuo gatto dopo che gli hai passato il panno imbevuto d'aceto per tenerlo pulito e lucido.
Ora smetti di guardarti allo specchio. Non ti serve a sentirti meglio. Fatti una doccia, non ciondolare, muoviti! Spogliati, apri l'acqua, entra nel box e
fai scivolare a lungo quel liquido bollente sul tuo corpo. Scotta? Lasciala  andare, non metterla tiepida. E' il rituale di ogni giorno dopo; lavar via gli odori, gli umori, vedrai, sentirai la tua pelle come nuova. Ora chiudi la doccia, afferra l'accappatoio e strofinati ovunque. E' quasi l'una, devi sbrigarti se vuoi trovare l' alimentari sotto casa ancora aperto. E' un anno ormai che vivi a Cinisello, ma ancora non ti sei abituata agli orari dei suoi negozietti di periferia. Dai svelta indossa i jeans e quel maglione grigio, quello largo lì sulla sedia ai piedi del letto. Metti il giaccone nero, è sull'attaccapanni nel corridoio dell'ingresso. Copriti, fuori fa freddo e tu non puoi permetterti di ammalarti. Entra nel negozio. La cassiera saluta  tutti tranne te, chissà poi perché eh?! Vai e digliene quattro, ti guarda sempre con quell'aria schifata e superba. Niente da fare, non ce la fai e lasci correre.
Sei proprio un tappetino dove pulirsi i piedi. Ordina il vitello tonnato e della verdura, frutta ne hai a casa, finiscila prima che marcisca, pure quella. Pranza e poi riposati. Ti addormenti sul divano con la tele accesa su quel programma che fa sognare tanti giovani, quella dove ragazzini spavaldi cantano e ballano e poi piangono e si innervosiscono.
E' inverno. Ti svegli ed è già quasi buio. Hai una vita vissuta al contrario rispetto la maggior parte della gente. Dormi quando gli altri portano i figli a scuola, lavorano, vanno al parco a fare jogging e a fare gli "ape" con gli amici. Tu non hai amiche, non hai un amore, neanche una famiglia.
Forza tirati su. Non dirmi che ti gira la testa, cosa? Hai un po' di brividi?
Oh adesso non la menare, devi prepararti. Hai scelto questa città perché offriva buone zone per il tuo intervento. Ora non puoi proprio perdere  colpi, più ti dai da fare, prima smetti di fare ‘sto lavoro, il più antico dicono!
Eccoti di nuovo di fronte allo specchio. Fondotinta, fard sulle guance, dai un po' di più. Cosa fai la santarellina? Insisti col rossetto e la matita nera
sugli occhi. Non ti far uscire lacrime, ora, che ti pasticci tutta ed è da rifare da capo il trucco. lo smalto sì ci vuole, quello scuro che fa gheparda.
Prendi i fouseaux neri, la canotta e il giubbino di pelliccia, le scarpe quelle
lucide dieci centimetri. Hai ragione che gusti orribili hanno gli uomini che vogliono le donne vestite così. Fatti coraggio, hai messo via un bel gruzzolo, tra un po' te ne potrai tornare a casa e fare quel corso come sarta e aprirti un negozietto. Lo so cosa pensi, Perché tu in questa storia! Eh cazzo, ognuno ha la sua, una po' ce la si fa, un po' ce  la  si trova già scritta. Esci, prendi la metrotranvia, i ragazzetti fan battute e tu rispondi con mosse scontate e buffamente provocanti. Però c'è un gruppo di uomini che ti fa più paura, ti squadrano e mangiano con gli occhi. Nonostante il mestiere che fai, ti mettono ancora in imbarazzo quegli sguardi, allora giri la faccia e osservi fuori dal finestrino. La metrotranvia attraversa una delle vie principali del paese, il retro di una chiesa, una serie di negozi, l'ospedale, il parco, una grande scuola dalla quale escono genitori coi ragazzini in tuta. Non sentirti triste. Stai male? Ascolta, hai la tachipirina in borsa, oltre il resto delle cose che ti servono stasera. Prendi l'acqua e butta giù una pastiglia. Ecco, la tua fermata, scendi. Attenta coi tacchi, se inciampi ti rifai la caviglia. E' ancora presto, colleghe non ce n'è ancora, meglio così. Fa molto freddo, scende una polvere ghiacciata e tu soffri e inizi a saltellare da un piede all'altro.

Noooo un tombino! Hai preso una storta tremenda. Ti butti per terra, piangi per il dolore e non sai che fare. Le macchine ti passano a pochi centimetri, quasi sfiorandoti, ma corrono ai lori nidi e non ti vedono neanche. Sul marciapiede opposto passano delle ragazze, ma ti guardano di sbieco senza fermarsi. Ti senti persa. Ma, ecco che arriva lui. Un uomo alto, abbigliamento sportivo, capelli brizzolati che dovevan esser stati biondi, occhi verdi. L'uomo dei tuoi sogni. Non può essere qua per te. E invece, si ferma, ti sorride e con una voce piena di calore e compassione ti chiede se può aiutarti! E lui non lo sa, ma già ti ha aiutato. Un moto di speranza ti disegna un sorriso sul tuo volto. Ti aggrappi a lui che ti solleva e ti chiede se può portarti in ospedale con la sua macchina. E' tanto tempo che non sali su una macchina se non per soddisfare il desiderio spasmodico di qualche uomo. Ti apre la portiera, ti chiede il tuo nome. L'odore dell'auto è buono e il suo, che hai catturato quando ti si è accostato, sa di mare e cioccolato. Lui sorride e tu vorresti perderti in questo nel tuo dormiveglia....

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